Narra il domenicano Jacopo d’Acqui (metà del sec. XIV) che nell’anno 934 un nobile tedesco di nome Aldeprando mentre si recava a Roma per sciogliere un voto con la sua sposa incinta si trovò a passare per il Piemonte. Giunti nei pressi di Sezzadio, la donna fu colta dalle doglie e venne ospitata nel castello dai signori del luogo. Qui diede alla luce un maschietto bellissimo che venne battezzato con il nome di Aleramo. Dopo un paio di mesi la coppia riprese il cammino verso Roma, lasciando il piccolo a balia in paese. Nel viaggio di ritorno accadde però che perirono entrambi, così come morì presto anche la nutrice. Il giovane Aleramofu accolto allora dai padroni del castello di Sezzadio e, giunto all’età di 15 anni, fu fatto scudiero di un nobile monferrino. Intanto l’imperatore Ottone era sceso in Lombardia per sedare una rivolta e aveva chiesto ai nobili suoi fedeli che gli procurassero un certo numero di scudieri per la corte. Il comune di Sezzadio mandò Aleramo, il quale tanto piacque all’imperatore che «lo fece cavaliere e di sua famiglia, e volle gli servisse nella coppa a mensa».
Il giovane, bello e cortese, raccoglieva l’ammirazione di tutte le nobildonne e in particolare della figlia stessa di Ottone, di nome Adelasia o Alasia, «la più vaga damigella che si trovasse al mondo».
I due si innamorarono intensamente e la fanciulla propose all’amato di fuggire in un luogo lontano e sicuro, prevedendo la reazione del padre. Una notte dunque i due abbandonarono la corte su due cavalli, uno bianco e uno rosso, subito inseguiti dagli uomini dell’imperatore.
Dopo molti giorni di precipitosa fuga, si fermarono sui monti dell’Appennino che separano Piemonte da Liguria, più precisamente in vista della città di Alassio. Questa località, in antico detta Lamio, sarebbe stata ribattezzata con il nome odierno proprio in onore di Alasia, o Adelasia, e della sua vicenda. La vita per i due fuggiaschi fu subito difficile: nulla da mangiare e nemmeno un riparo in cui vivere alla meglio. Aleramo si costruì una capanna di tronchi e arbusti e per vivere si adattò a fare il carbonaio: vendeva il carbone sul mercato di Albenga, mentre la sua innamorata era brava a ricamare e poteva rivendere i suoi lavori, ricavandone qualche soldo per tirare avanti. Andato un giorno a vendere il carbone al vescovo di Albenga, il giovane Aleramo venne notato dal presule per i suoi modi gentili e subito fatto suo scudiero. Un bel giorno però l’imperatore Ottone tornò a chiedere uomini per le sue guerre e il vescovo mandò a corte anche il suo paggio, con funzioni di aiutante del cuoco, praticamente sguattero. Il momento della riscossa venne per Aleramo quando un nipote di Ottone fu rapito dai sediziosi bresciani e si temeva per la sua vita: il giovane tanto fece e disse che riuscì a farlo rilasciare senza alcun danno. Fatto condurre al cospetto del severissimo Ottone, quell’umile lavapiatti, tutto nero e sporco, dovette rivelare la sua identità e attendersi le ire del signore: ma l’imperatore, raddolcito dal sua racconto, «con grandissima tenerezza raccolse la figliuola, il genero e i quattro nipoti» (infatti nel frattempo la coppia aveva messo al mondo ben quattro figli, tre maschi e una femmina). Al genero e ai nipoti Ottone diede il titolo di cavaliere e assegnò come loro segno distintivo «la balzana di color rosso e bianco che doveva essere segno di valore e della fede di tutti gli eredi del seme di Aleramo»: e chissà che i due colori non si facciano risalire al mantello dei due cavalli su cui i due innamorati erano fuggiti furtivi nella notte…
Sta di fatto che il rosso e il bianco (argento) saranno d’ora in poi i colori del Monferrato e di tanti dei suoi comuni, fino ai giorni nostri. In segno di stima e riconciliazione, Ottone volle poi concedere al genero il titolo di marchese, donandogli in possesso tante terre quante ne avrebbe potute percorrere a cavallo nel corso di tre giorni e tre notti.
Da questa leggenda è nata la cosiddetta “cavalcata aleramica”, destinata a circoscrivere la parte di Piemonte e Liguria compresa nel Marchesato, che fu istituito il 21 marzo dell’anno 967.
Una fantastica cavalcata che, mille anni or sono, segnò i confini del Monferrato.
Testo a cura di Alessandro Alemanno preso dal sito www.monferrini.com