Il ghetto ebraico di Acqui fu area di segregazione sostenuta dal locale Vescovado – attento esecutore delle severe direttive imposte dal Concilio di Trento contro gli ebrei “usurai e deicidi” anche mediante prediche speciali pro-ebrei, pastorali di divieto di frequentazione ai cattolici, interdizioni varie alla Comunità- scelta per evitare che le case degli ebrei avessero contatti con quelle dei cristiani. Istituito nel 1731 da casa Savoia, regnante sul Monferrato dopo la pace di Utrech del 1714, in applicazione ai decreti reali che prevedevano l’accorpamento delle piccole comunità alle grandi viciniori, il ghetto acquese ospitò anche cinque delle sette famiglie del casato Levi (circa 40 persone) di Monastero Bormida costretti a trasferirvisi ed a convivere con le altre 40 famiglie (circa 200 persone) di ebrei locali. Costituito inizialmente da 13 case situate in piazza Bollente e nell’attuale via Saracco, dove si trovavano la sinagoga e la scuola ebraica, non incluse la piazza (con le vie d’accesso), utilizzata per i mercati cittadini e aperta alla popolazione, e non ebbe portoni da chiudere di sera per l’intera notte. Le famiglie ebree affittarono i locali di abitazione ad un canone del 4 e un quarto per cento del valore degli immobili. Esercitarono commercio, da panni e abiti usati, a granaglie e vino, al prestito ad interesse come titolari di banchi; da imprenditori intraprendenti, impiantarono filande e setifici, ottennero licenze per raccolta, vendita e filatura di bozzoli da seta, aprirono negozi di tessuti, pellami, generi vari generando insofferenza da parte della popolazione contadina povera e immiserita da debiti insolvibili.
Durante il triennio giacobino la comunità ebraica fu sospettata di connivenza con i Francesi e nominativi di capifamiglia furono ufficializzati in apposito elenco. Il 26 febbraio 1799 esplose il primo tentativo di pogrom al ghetto avviato con il saccheggio dei negozi e prodotto con il tentativo di esecuzione capitale del giovane rabbino Bonajut Ottolenghi, autore di un discorso celebrativo ai piedi dell’albero della libertà innalzato nella piazza del ghetto, del fratello di lui Israel e del loro padre – il ricchissimo prestatore Giuseppe Salvador detto Nasino – salvati in extremis da un intervento del vescovo Della Torre.
Nei decenni seguenti, a fronte dell’incrementale aumento della popolazione ebraica ed all’insufficiente spazio abitativo, il ghetto originario fu ampliato due volte; nel 1824, con l’annessione della palazzata tra l’attuale via Bove e corso Italia e, nel 1836, con l’aggiunta dell’isolato verso l’attuale piazza San Guido. L’intraprendenza ebraica negli affari commerciali ed il progressivo loro arricchimento, oltre al perdurante antigiudaismo della Curia e del vescovo Contratto, produssero attriti ricorrenti tra il mondo cattolico e il ghetto e costituirono la miscela esplosiva dell’improvviso e violentissimo secondo pogrom nei giorni 23 e 24 aprile 1848 (durante i festeggiamenti per l’avvenuta emancipazione concessa da Carlo Alberto) stroncato dall’intervento dell’allora sindaco Conte Blesi che accorse personalmente e trasse fuori dall’abitazione assediata il rabbino Bonajut, scortato dalla guardia civica che lo condusse nelle prigioni del Castello per sottrarlo alla ferocia della folla. E benché il 1848 non avesse azzerato l’antisemitismo e l’antigiudaismo – che furono terreno di coltura di politiche razziste – i decenni del secondo Ottocento furono contrassegnati da convivenza ebraico-cattolica locale dialettica e feconda.

TESTO a cura di LUISA RAPETTI.

 

 

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